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Archive for febbraio, 2014

NON E’ UN PAESE PER GIOVANI

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smettoE’ notorio che viviamo in un paese in cui le aspirazioni dei giovani vengono costantemente castrate e in cui i “vecchi”, con rispetto parlando, lasciano con difficoltà le proprie posizioni di privilegio e, con queste, la possibilità di esprimersi alle nuove leve. Scusate l’ovvietà, ma era un modo per introdurvi a Smetto quando voglio, un, piccolo, film che sta girando con buon successo nelle sale diretto dal poco più che trentenne Sydney Sibilia. Una commedia su una banda strampalata, formata da ottimi ex studenti universitari che però si ritrovano chiusi in un precariato eterno e insoddisfacente. In qualche modo, più o meno legale, metteranno a frutto le loro doti. Il modello è quello de I soliti ignoti e anche se nel cast non si intravedono né Totò né Gassman né Mastroianni, va detto che il risultato finale è più che gradevole e che il regista, quantomeno, ci mette del suo, scegliendo uno stile molto, forse troppo, marcato (a partire dai colori accesi e vagamente pulp) e quindi ben lontano dalla stragrande maggioranza delle altre commedie italiote girate in maniera anonima e solo in funzione del comico televisivo di turno.

Andate pure a vederlo, a patto di non pensare di trovarvi di fronte a qualcosa di eclatante, ma date fiducia a un vero giovane che dimostra di avere un’idea di ritmo, padronanza dei tempi comici, un certo equilibrio nella messa in scena, assenza di volgarità gratuite e che non utilizza il turpiloquio come extrema ratio per strappare la risata.

Potrei andare avanti, ma voglio tornare al principio e al tema dello spazio ai giovani; darlo a prescindere penso che sia una fesseria, tanto che nello stesso film di Sibilia ci sono personaggi (giovanissimi) che spaventano per il loro vuoto esistenziale e per la loro vita tutta dedita allo sballo e a correre sul SUV pagato dal papà; saranno anche caricature, ma, ahinoi di giovani così ne esistono a pacchi e a questi lo spazio andrebbe chiuso completamente. Tanto per esplicitare il concetto al mondo (e in Italia) esistono i Sydney Sibiliae i Francesco Mandelli e la differenza (non anagrafica) è tanta.

Passando in altri ambiti è come se in politica il primo giovinastro ad arrivare sulla scena (e che pensa che esser giovani significhi star su facebook e andar dalla De Filippi) finisca a fare il primo ministro smentendo completamente se stesso e dimostrandosi più vecchio dei politici dell’era DC. Beh, sarebbe davvero da ridere…

 Ivan il Terribile


febbraio 17th, 2014  



UN ALIENO TRA BUFFONI DI CORTE: DAVID LYNCH A “CHE TEMPO FA”

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eraserNon sopporto la televisione. Non sopporto la sua volgarità esibita e ormai comunemente accettata, come se non fosse possibile un’alternativa; la sua ironia al limite dello scatologico, i giochini puerili e illusori, la perdita di confine tra lo spettacolo e la spettacolarizzazione.

Ma lunedì scorso, per venti minuti, ho riavuto la mia dignità non solo di spettatrice, ma di essere pensante. Me l’ha restituita David Lynch: un Lynch cortese quanto remoto, estraneo al contesto che lo accoglieva; un alieno tra buffoni di corte, un artista che ha spostato i confini del pensiero eppure senza presunzione discuteva di cinema, arte e ricerca del sé.

Sfuggendo alle facili categorizzazioni di un Fazio che, scolaretto superficiale e limitato, tentava di incasellarlo in trite definizioni (dal concetto di “Lynchano” ad errati paragoni con la pittura di Hopper), Lynch ha accennato alla densità del suo cinema partendo dalla pittura metafisica (lo splendido “L’assassino minacciato” di Magritte, il suo quadro preferito). Poi ha paragonato cinema e musica, forme d’arte basate sul flusso – nel caso del cinema flusso di sequenze – e della necessità del regista di riprodurre la propria “musica” interiore. Ha parlato di bellezza, invitando a spalancare la mente e accogliere la bellezza ovunque, oltre i suoi aspetti convenzionali; e con impeto surrealista ha descritto la bellezza di una ferita in decomposizione, facendo balzare sulla sedia i più impreparati e gli ipersensibili (un’immagine che mi ha ricordato Bunuel, e la sua scioccante inquadratura dell’occhio tagliato in Un chien andalou).

Così, in quel salotto dove pochi minuti prima una sguaiata Littizzetto si era esibita in un interminabile elogio del peto, Lynch ha discusso di estetica, ricerca interiore, spirito creativo.

In venti minuti ci ha restituito il senso di quella bellezza che meritiamo di trovare ed abbiamo il compito di cercare. Ringrazio Lynch, che in una televisione dove regnano la cafoneria e l’imbecillità (esattamente come in politica) mi ha ricordato che le cose possono fluire, e la bellezza è ancora possibile.

Marcella Leonardi


febbraio 10th, 2014  



IL LUPO NON PERDE IL VIZIO

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Thewolfofwallstreet.psdOgni tanto mi vengono rivolte alcune domande apparentemente innocue, ma che nascondono insidie ed imprevisti effetti boomerang. Questioni del tipo: “Quali sono i film di Kubrick che preferisci?” Mi verrebbe da rispondere tutti, ma per non essere vago, confesso che Shining, 2001 e Barry Lyndon sono, a mio avviso, i suoi tre capolavori assoluti. Il mio interlocutore in genere mi scruta con uno sguardo strano e sembra volermi dire “Quindi secondo te Lolita è una schifezza e Spartacus una pellicola da bruciare?”. Ovviamente non lo penso affatto e mi dico che la volta dopo sarò qualunquista e dirò che sono tutti belli. Il fatto è che ci sono registi che non sono proprio in grado di girare brutti film, semplicemente perchè il cinema lo hanno sotto pelle, come un vizio.

Di questa categoria, molto esclusiva, fa parte anche Martin Scorsese. Il suo ultimo Wolf of Wall Street ne è la dimostrazione. Un filmone di tre ore, eccitante e senza il minimo cedimento in cui la parabola del broker Jordan Belfort, venditore del nulla e assuntore di droghe di ogni tipo, ci viene raccontata con uno stile stupefacente, in perfetta aderenza al personaggio. Ovviamente la buona riuscita dell’impresa è dovuta anche a un cast (tecnico e artistico) impressionante in cui Leonardo Di Caprio giganteggia, ma dentro al quale ogni ingranaggio gira a meraviglia e in cui ogni minima comparsata (in primis quella iniziale di Matthew McConaughey) lascia un segno profondo.

Sicuramente si potrebbe disquisire sul fatto che la struttura non ha granchè di rivoluzionario e che Scorsese utilizza anche qualche soluzione un po’ facile, a cominciare dalla voce fuori campo che racconta e descrive ogni stato d’animo del protagonista, cosa che talvolta toglie il gusto dell’interpretazione personale e dell’abbandono all’immagine, ma si correrebbe il rischio di far le pulci a un film che ne ha davvero poche e che passano in secondo (ma anche terzo e quarto) piano di fronte a sequenze memorabili, su tutte quella dell’effetto ritardato del Qualuude.

Insomma, guardatelo e godetene tutti, e lasciate perdere quella, ahimè larga, parte della critica che si è lanciata ad azzannare film a autore per la presunta amoralità, le troppe parolacce (!!!) e per l’esaltazione dell’eroe negativo. Eh già, come se il regista italo-americano fosse nuovo a descrivere criminali di ogni foggia con uno sguardo quantomeno affascinato. Problemi loro, io intanto mi metto a giocare a “I miei Scorsese movie preferiti” e in cima alla lista inserisco Taxi driver, Quei bravi ragazzi e Cape Fear. E se qualcuno con questo intende che Wolf of Wall Street è un film minore e da evitare, faccia pure e vada a vedersi Hercules e I, Frankenstein!

Buone vizioni

Ivan il Terribile


febbraio 10th, 2014  



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