La chiave di Sopravvissuto – The Martian sta tutto nel monologo finale del protagonista che, agli aspiranti astronauti della NASA, spiega che un giorno si troveranno in situazioni estreme per cercare di sopravvivere e, per farlo, dovranno risolvere un problema e poi un altro e poi un altro… Esattamente questo è quello che vede lo spettatore nei 125 minuti che precedono questa inutile sequenza. E cioè l’applicazione di leggi della botanica, chimica, fisica che servono per superare le innumerevoli prove che Mark Watney (interpretato da Matt Damon) si ritrova ad affrontare su Marte dopo essere stato involontariamente abbandonato a seguito di una tempesta improvvisa.
Date queste premesse poteva essere materiale interessante perché c’erano tutte le carte in regola per trasformare il film in un Robinson Crusoe del terzo millennio, ma questa strada viene presto abbandonata, dal momento in cui Watney riesce a comunicare con la Terra e così l’ipotetico rapporto dell’uomo solo con la natura ignota va a farsi friggere per mutare la vicenda nell’ennesima operazione di salvataggio in cui gli americani sono tanto felici di specchiarsi e in cui il popolo collegato in mondovisione potrà trovare il suo (super)eroe (e, se non fosse chiaro, è lo stesso protagonista a dirlo : “per farcela dovrò fare come Iron Man!”).
Il nodo principale è che il film risulta essere formato da poca fanta e molta scienza, in cui l’utilizzo della conoscenza e della ragione rappresentano l’unica via di salvezza, dove manca qualsiasi rapporto con l’Infinito (eppure basterebbe un colle e una siepe per evocarlo) e dove l’anima è completamente asservita all’intelletto. Se poi vi aspettate un qualsiasi contatto mistico con forze aliene o entità superiori, lasciate perdere, perché non ce n’è traccia e la religione torna utile solo per accendere un fuoco tramite un crocefisso ligneo, unico oggetto combustibile su Marte. Si ha come l’impressione che, se comparisse un monolite nero in mezzo al deserto, il caro Mark si preoccuperebbe solo di capire che cosa farne per le proprie esigenze quotidiane. Ci sono molti altri aspetti dello script che risultano fastidiosi: ad esempio la sicurezza con cui l’equipaggio decidere di tornare a recuperare il compagno, pur sapendo che all’80% (minimo) ci lasceranno le penne e che, ben che vada, questo significherebbe restare mesi e mesi in più lontani da casa; sarà, ma i membri del Nostromo di Alien(diretto 30 anni fa da un tale Ridley Scott, strano caso di omonimia col regista di The Martian…) erano molto più ambigui e (dis)umani.
L’unico inserto involontariamente “fantastico” della mediocre sceneggiatura è quella che vede i capi dell’agenzia spaziale cinese (!!) decidere di utilizzare una propria sonda per riacchiappare lo yankee e alla fine brindare insieme agli (ex) nemici. Avrei digerito meglio un intervento salvifico di Manitù…
Ma non è questo l’aspetto peggiore, perchè il film è deludente soprattutto per la sua scarsa “visionarietà”, per la mancanza assoluta di immagini che impressionino l’occhio e questo vale sia per la parte girata nello spazio aperto (l’inizio di Gravityaveva tutt’altro impatto, ad esempio) sia per quelle a bordo della navicella (Kubrick è lontano anni luce) sia, più che mai, per quella su Marte (a confronto il Viaggio sulla Luna di Melies resta pura avanguardia, ca va sans dire).
Se questo è il futuro che ci aspetta al cinema, allora è un vero problema. Chiamo Houston, vediamo se mi aiutano a risolverlo.
Ivan il Terribile